Mia nonna era nata nel 1906 ed è vissuta quasi tutta la vita a Ravello, in Costiera Amalfitana. La bellezza mozzafiato di questo luogo era per lei parte del quotidiano, da godere in un momento di pausa dalle incombenze domestiche, che non erano poche considerando i suoi nove figli.
Era bella, la nonna: alta, di bel portamento. Forte e severa. E a dispetto della presunta propensione partenopea per il canto non mi sovviene una sola volta in cui abbia cantato una canzone. Anzi no… mi sbaglio… perché una volta ho sentito che ne accennava una.
Era già molto anziana e le chiesi se c’era una canzone che ricordava particolarmente. Lei ci pensò e invece di dirmi il titolo cantò a bassa voce: “Parteno ‘e bastimente/ pe terre assaje luntane…” Solo questi due versi. Disse che la canzone le ricordava le sue cugine che, giovanissime, erano dovute partire dalla Costiera con le loro famiglie. Mi sembrò che avesse gli occhi lucidi. Mi sembrò improvvisamente fragile.

Santa Lucia – Napoli
Mi chiedo quante persone della sua generazione nell’ascoltare o nel cantare quella canzone del 1919 abbiano provato ciò che mi sembrò provare lei in quel momento: la tristezza della separazione. Un senso di lacerazione che non si sana mai del tutto.
Perché Santa Lucia luntana racconta del distacco. E lo racconta dalla prospettiva di chi è restato sul molo a seguire con gli occhi i bastimenti che si allontanano. E quando sono scomparsi ecco che ancora giunge a riva la voce di chi è partito: perché a bordo si canta; si canta per salutare la propria terra, i propri cari, si canta per farsi forza e superare la paura dell’ignoto. E subito la prospettiva cambia e non siamo più sul molo ma a bordo del bastimento, con quei napoletani che, cantando, tengono gli occhi fissi sul rione di Santa Lucia che è l’ultimo pezzetto di Napoli a scomparire. Le dita del musicista che li accompagna con la chitarra tremano nello sfiorare le corde. “Quanta malinconia!”, dicono le parole; e le note si dispongono in una sequenza che ci fa provare quella malinconia fin dentro il midollo.
Se qualcuno di voi è stato ad Ellis Island, a New York, se qualcuno di voi ha visitato il museo dell’immigrazione che dal 1990 è aperto sull’isola, se qualcuno di voi ha visto quel luogo dove i viaggiatori di terza classe – i cugini, i fratelli, le sorelle dei nostri avi – erano sottoposti a rigorosi controlli medici e a valutazioni le più varie prima di guadagnarsi l’ingresso nella terra promessa (che non era garantito), allora forse sarà rimasto colpito dalle foto alle pareti che documentano l’imponente flusso migratorio. E forse avrà notato come quei volti tutti diversi – maschili e femminili, giovani e meno giovani, avvenenti e sgraziati – siano accomunati dagli stessi occhi: occhi pieni di malinconia. La stessa malinconia che, evocata dalla canzone, si era affacciata negli occhi di mia nonna: la malinconia di una separazione epocale, di qua e di là dal mare; la malinconia che una piccola e coraggiosa canzone ha avuto la forza di raccontare.