Come immaginate che fossero i teatri del Cinquecento a Londra? Pensate forse che fossero templi della parola in cui si ascoltavano in rispettoso silenzio i versi immortali di Marlowe, Shakespeare e Jonson? Ve li figurate immersi in una quiete attenta?
Beh, se è questa l’idea che vi siete fatti, mi spiace dirvi che siete molto lontani dalla realtà.
I teatri pubblici erano rumorosissimi! Sorti come funghi sulla riva Sud del Tamigi, fuori dalle mura di Londra (sì, all’epoca Londra era proprio circondata da mura), si contendevano i clienti con i bordelli e le arene per il combattimento degli animali. Immaginatevi i decibel! Le grida degli allibratori, il latrato dei cani, il brontolio degli orsi, lo schiamazzo dei galli, i richiami dei venditori e le migliaia di parole pronunciate da un fiume di persone ammassate in questo parco divertimenti dove si arrivava in barca o attraversando l’unico ponte esistente all’epoca, un ponte ‘adorno’ delle teste impalate dei trasgressori della legge… e sì che era facile trasgredire la legge, essendo vietate tante cose… come a dire: attenzione a non finire anche voi così, visto che siete sulla buona strada!
Tutti questi suoni invadevano il teatro: perché sapete che le playhouse non avevano un tetto a coprire quella che oggi chiamiamo platea. La luce doveva entrare dall’alto per illuminare il palcoscenico (gli spettacoli si tenevano nel primo pomeriggio) e insieme alla luce entrava il rumore. Ma gli attori sapevano come richiamare l’attenzione del loro pubblico e i drammaturghi davano loro le parole per farlo: “Amici, romani compatrioti: prestatemi orecchio”, grida con tutto il fiato che ha in gola Marc’Antonio prima di cominciare l’orazione funebre per Cesare, straziato dalle coltellate. A zittirsi in quel momento non è solo il ‘popolo romano’ sul palcoscenico. Perché in teatro si crea una strana bolla di silenzio in cui le parole possono finalmente galleggiare anche se solo sussurrate.
E poi c’era tanta musica nei teatri. Basti pensare anche solo a tutte le canzoni che troviamo nei drammi di Shakespeare. Non abbiamo gli spartiti associati a quelle canzoni, e quindi gli studiosi discutono e si lanciano in ipotesi. La verità, però, è che non sapremo mai, non avremo mai la certezza di quali fossero le melodie di quelle canzoni. Ma le melodie che non abbiamo mai ascoltato, ci dice un poeta, sono anche quelle più dolci.
A me piace immaginare che Shakespeare lasciasse gli attori liberi di usare le melodie in voga al momento. Catturavano meglio l’orecchio di un pubblico rumoroso e indisciplinato!
Distratti da chi passava vendendo birra, mele, noci; preoccupati di non farsi derubare dai tagliaborse che approfittavano della calca, stuzzicati dagli ammiccamenti di chi invitava ad un veloce incontro a pagamento gli spettatori un po’ seguivano quanto accadeva in palcoscenico e un po’ quello che succedeva intorno a loro. Eccoli lì, che assistono alla Dodicesima notte. Ed ecco che il buffone Feste comincia a cantare: “O Mistress Mine where are you roaming”. Che canzone struggente! Racconta della giovinezza che fugge e di come son belli i primi amori e di come bisogna godersi l’attimo prima che si perda nelle rapide del tempo. Gli spettatori riconoscono la nota melodia e si zittiscono; forse dimenticano di bere quel fondo di birra rimasto nel boccale, forse qualcuno che sgranocchiava una noce ferma le mascelle; forse si commuovono.
E per un attimo tutto tace e il canto riempie il teatro.