LA VOCE INTERIORE
Maddalena Pennacchia: sono felicissima e onorata, Gretchen, che tu sia oggi ospite della rubrica Sisterhood of Voice per parlare della tua ‘voce interiore’. Gretchen Parlato non ha bisogno di presentazioni, è un’artista che ha ottenuto riconoscimenti di enorme rilievo per i suoi lavori nell’ambito del jazz, fra cui mi limito a citare la nomination ai Grammy Award for Best Jazz Vocal Album per il disco Live in New York City. Per me è un piacere enorme poter parlare con te del tuo lavoro, del modo in cui usi la voce, dell’impatto che hai su chi ti ascolta
Gretchen Parlato: sono anche io felice di essere qui. Anzi mi aiuta mettere in parola questi argomenti!
Maddalena Pennacchia: una delle cose che mi hanno più colpito quando ci siamo conosciute, durante la tua prima lezione, è il tuo modo di pensare il canto, la tua ‘teoria’ del canto. Mi hai parlato, infatti, di un processo che si sviluppa su tre livelli. Ti va di dire qualcosa su questo?
Gretchen Parlato: sì, certo! Ho cominciato a pensarci qualche anno fa. Mi sono resa conto che quando chiudo gli occhi per cantare, che sia per un concerto o perché sto facendo esercizio, visualizzo tre strati. Ne posso parlare certo, ma è qualcosa che immagino concretamente, qualcosa che è presente davanti ai miei occhi. C’è uno strato tecnico al centro. Sotto vi è uno strato emotivo e al di sopra quello spirituale. Quindi per me esistono questi tre strati, o puoi chiamarli livelli, o aree di lavoro. O meglio, non si tratta di lavoro, non è qualcosa che sta fuori di sé, che devi cercare fuori, ma qualcosa che è lì e della cui esistenza ti rendi conto. Lo strato tecnico: c’è questa parola, la ‘tecnica’, che ha a che fare con quello che hai imparato sui libri e a lezione, è la parte ‘scientifica’, ‘matematica’, di ciò che facciamo come musicisti. La tecnica, ovvero l’intonazione, la tonalità, il timbro, l’appoggio, il lavoro sul ritmo, la teoria, l’educazione all’ascolto; è tutto ciò che puoi studiare e apprendere. Ma mi sono appunto resa conto che c’è anche altro. Questi altri due strati che sono un po’ più mistici. Nello strato sotto quello tecnico, in un senso più radicato, più profondo, più interiore, c’è un livello emotivo: una connessione emotiva con quello che facciamo in quanto cantanti. È l’emozione che sta dietro la voce. E’ il ‘come’ provi emozioni. Ed è il ‘come’ gli altri che ti ascoltano potrebbero provare emozioni. Tenerne conto è importante. Significa capire che è un aspetto che muta. Potresti trovarti a cantare lo stesso brano musicale, ma le emozioni sono cambiate. Le emozioni cambiano continuamente. Ed è anche il racconto che c’è nella canzone, l’emozione legata alla storia di quella canzone. E’ sapere da dove arriva quella canzone. Qual è il suo contesto. Qual è il suo ambiente. Chi sono coloro che l’hanno scritta e qual è la loro storia. Si tratta insomma di trovare tutte queste storie che si ramificano. Più in alto c’è questa sorta di livello spirituale che ciascuno può definire con parole sue e nel modo in cui sente più vicino. Spiritualità, religione, o semplicemente il senso di ciò che non si conosce, di qualcosa di più grande di noi, mi piace definirlo così: qualcosa che va oltre l’umano, che è fuori dal nostro controllo. Qualunque cosa ciò possa significare per ciascuno, si tratta della consapevolezza che quello che facciamo è prezioso. È sacro. È profondo. Dura. Ci sopravvive. Insomma, tutto ciò che produciamo è destinato a restare e permanere anche dopo che saremo morti. È un pensiero bellissimo e gravoso quello dell’impatto che produrrai per sempre. Ma l’impatto è anche sull’‘attimo’: perché così funzionano le cose nell’immediato: carichi qualcosa in rete e raggiunge il mondo intero in un secondo. Quindi, si tratta anche di quella consapevolezza che tutto quanto facciamo ha un impatto più grande e può influenzare tantissime persone. Forse questo dovrebbe aiutarci a pensare più alla qualità del nostro lavoro che alla quantità. Insomma, si tratta di ciò che stiamo effettivamente comunicando e con quale scopo e qual è il messaggio. Questo è quanto, più o meno. A me piace muovermi fra questi strati, intrecciarli, fluttuare fra di essi, lavorare da posizioni differenti. E tutto ciò mi aiuta a connettermi pienamente con quello che sto cantando.
Maddalena Pennacchia: questa interconnessione è davvero molto bella! E penso alle parole delle tue canzoni. Perché tu sei anche una scrittrice. Perdonami se invece di cominciare dalla musica comincio dalla tua scrittura, perché a mio avviso le tue canzoni sono dei bellissimi esempi di poesia. Mi sembra che tu non abbia cominciato prestissimo a scrivere, almeno a giudicare dai tuoi album. Forse In A Dream (2009) è stato il primo album in cui sono comparse un paio di canzoni scritte da te. Vorrei chiamarle poesie. L’idea di un cerchio infinito che va oltre la fine di ciascun individuo è già presente lì. Scrivi in Turning into Blue: “life is but a dream we wake at the end/ only just to smile then live it again” (la vita è un sogno dal quale ci svegliamo alla fine/ solo per sorridere e tornare a viverlo). È il tema ‘barocco’ della vita che è sogno ed è inevitabile che io pensi a Prospero: “we are such stuff/ As dreams are made on, and our little life/ is rounded with a sleep” (Shakespeare,The Tempest, the Folger Shakespeare, 4.1.173-5; “ siamo fatti della materia dei sogni, e la nostra breve vita è avvolta nel sonno”). Per Shakespeare, come per tanti altri importanti autori occidentali, il tempo è una progressione lineare: comporta la fine inevitabile di ciascun individuo. E questo concetto conduce per forza ad un sentimento di melanconia. Mentre la tua visione, quella espressa nelle tue poesie in musica, lenisce e consola. Ed è perfettamente in linea con il modo in cui canti. Il modo in cui per esempio tendi a ripetere alcuni suoni: non una gamma amplissima di note, ma le stesse note che tornano e tornano e tornano, come onde. E tu scrivi proprio di onde: “like the endless waves belong to the sea/ all of this is more than just you and me” (“come le onde infinite appartengono al mare/ tutto questo è più di te e di me”). Com’è diverso questo pensiero rispetto, ancora una volta, a quello espresso da Shakespeare: “Like as the waves make towards the pebbles shore/ So do our minutes hasten to their end” (“Come le onde si avvicendano sulla riva di ciottoli/ Così i nostri minuti corrono verso la loro fine”, Sonetto 60). La visione del tempo, in questi versi famosissimi, è quella occidentale. La tua è diversa. Orientale forse. Mi piace tanto che le tue parole corrispondano così bene con le tue scelte sonore e vocali, con la tua natura di cantante. Mi chiedo se hai cominciato a scrivere per qualche ragione speciale. Com’è cominciata questa necessità della scrittura?
Gretchen Parlato: Mi piace molto quello che stai mettendo in evidenza. È molto bello, grazie. I miei primi passi nell’ambito della creatività sono stati nella scrittura di testi. Prima ancora di tentare di scrivere una melodia o una canzone completa, ho provato a scrivere il testo di una musica che già esisteva. Il primo testo è stato Juju per la canzone di Wayne Shorter, Footprint (nell’album Gretchen Parlato, 2005) ed era su ‘commissione’ (“when the wind blows sounds of yellow are around”, “quando spira il vento, suoni di giallo ci circondano”). Mi fa piacere raccontarti questa storia perché risale ad un tempo molto lontano della mia vita. Mi sono resa conto allora che faccio molto meglio quando qualcuno mi dà un compito e ci sono delle scadenze e altri sono coinvolti nei risultati. L’inizio è stato quello. Ero nell’ultima fase dei miei venti anni quando ho provato a scrivere e poi la cosa è cresciuta. Ma credo che fosse anche il momento in cui ho scoperto lo yoga, e questo mi ha fatto conoscere insegnanti che hanno condiviso con me le loro filosofie e molte erano buddiste; ero profondamente commossa da Thích Nhất Hạnh, il monaco vietnamita. È ancora vivo, sai, anche se è nell’ultima fase della sua vita. E Pema Chödrön. Sono loro le due principali influenze sulla mia scrittura. Ma hai ragione: è orientale! Deriva da questa attenzione orientale alla mindfulness e al ciclo delle nostre vite. E questo stato onirico, il sogno, mi aveva davvero affascinato. Meditare e scrivere della differenza che avvertiamo fra la veglia e il sonno. La vita non è che sogno, “life is but a dream”; è anche in una canzoncina per bambini: “row, row row your boat/ gently down the stream/ merrily merrily merrily merrily life is but a dream”. Poi c’è la questione della memoria e della coscienza e il flusso che le unisce. E amo le immagini dell’acqua e il suo espandersi e l’oceano immenso. Tutto questo mi affascinava. Il concetto delle onde. Il fatto che tutti siamo presi dentro quest’onda, ma il movimento è continuo, l’onda arriva e si ripiega su se stessa. Fa parte di un insieme più ampio. Tutto questo mi ha aiutata davvero a calmarmi e rilassarmi e a godere e a tentare di stare nel momento. La mia sensazione è di averlo fatto per me stessa. Mi hai fatto ricordare che c’è stato un periodo quando ero più giovane in cui ero molto preoccupata, sai: ci preoccupiamo di quello che succederà, ci preoccupiamo della morte che è la principale ansia che un bambino possa concepire. La paura di perdere qualcuno della famiglia o che qualcosa di male ti possa accadere. E c’erano sempre i timori per ciò che poteva accadere o ciò che poteva essere. Mi dava le vertigini. Mi ci sono voluti vent’anni o giù di lì per fare la scoperta che mi ha consentito di rilassarmi e vedere l’insieme delle cose. Quindi forse c’è stata una parte di me che ha pensato: fammi scrivere di tutto questo che forse potrà essere di aiuto per qualcun altro. E ora ho un figlio. E si desidera trasmettere anche a loro, ai figli, di non tenersi dentro, nel corpo, queste paure ansiose, ma di sentire che tutto è ciò che è e che è nel momento e che possiamo godere di ciò che è. È più sano
Maddalena Pennacchia: Sì, bellissimo! E direi che comunichi questa idea perfettamente attraverso la voce; le tue parole raggiungono attraverso i sensi le persone che ti ascoltano. Nel tuo terzo album, forse il più complesso, a mio parere, The Lost and the Found (2011), c’è ancora un altro immaginario che ha a che fare con l’aria e il vento e il cielo, e persino le sfere e i pianeti. È arioso per così dire. Forse mi sbaglio, ma è così che l’ho letto e ascoltato. Mi piace l’idea che si debba perdere se si vuole trovare. Mi piace questo concetto in relazione alla creatività. La parola invenzione d’altra parte viene dal latino “invenire” che significa “trovare”: “ego invenio”, “trovo”. Quindi trovi un’idea che era lì, forse è un’idea che era di altri, ma poi devi lasciarla andare per poter ricreare qualcos’altro, per farla circolare. Mi piace di quest’album la circolarità. La figura geometrica del cerchio. E le immagini di aria.
Gretchen Parlato: sì, hai ragione, la circolarità ne era sicuramente parte. E l’aria. Sì c’è anche molta aria nella mia voce. A volte lo fanno notare come una critica, a volte è un complimento, a volte è una semplice osservazione. Fa parte della mia voce. Comunque quello che forse contava di più in quel momento era accettare il cambiamento. Questa è stata la cosa più difficile. Quando ripenso alle paure dell’infanzia, al fatto che si ama qualcosa tantissimo per poi rendersi conto che non dura, che se ne va. E invece si vuole tenere quella cosa lì per sempre, e poi nel crescere si capisce che non è così che funziona la vita. Ma che questo non significa che si debba essere tristi. Che questo deve aiutarti a pensare, a farti apprezzare davvero quello che è, adesso. Sono tante cose che ho imparato da diverse figure della mia vita. Accettare il cambiamento: quando si chiude una porta se ne apre un’altra, non cercare di definire se una cosa è buona o cattiva, ma accettare che è così e basta. E forse anche un equilibrio nel modo di lavorare. Lavorare duramente ma fermarsi anche, per capire in che punto ti trovi, e sbocciare proprio lì, laddove sei.
Maddalena Pennacchia: Mi chiedevo, Gretchen, se c’è una canzone speciale nella tua vita, una canzone che rappresenti per te un “momento di essere”, quel momento in cui, come diceva Wordsworth, riesci a “vedere la vita delle cose”. Quei momenti in cui ti fermi e senti ad un livello di maggiore intensità e afferri il senso di qualcosa. C’è una canzone che quando l’hai cantata ti ha dato questa sensazione? Una canzone tua o una canzone di altri che è particolarmente importante nella tua vita o nella tua carriera?
Gretchen Parlato: A volte ‘rivisito’ alcune canzoni; dipende dal punto in cui sei nella tua vita. Capita di sentire qualcosa una prima volta e non esserne colpito come dovresti, poi magari la risenti in un altro momento e capisci: ah, ecco! E ti rendi conto che forse bisognerebbe tornarci. Temo che dovrò riflettere meglio su questa domanda. Però penso a quando ero molto giovane e cantavamo Joni Mitchell al summer camp: The Circle Game. Ho ricordi di questi summer camp in cui imparavo canzoni folk. Che tenerezza! E noi cantavamo questa canzone adorabile: ‘round and round and round and round, in the circle game’ e poi diventi grande e realizzi che, wow, lei stava parlando della vita intera, capisci? e del cambiamento, e dei cicli. Possono essere canzoni come quella; canzoni che devi avere un certo grado di maturità e consapevolezza perché ti colpiscano veramente nel profondo. Ma è anche la bellezza di una canzone che raggiunge le persone in modo diverso a seconda del loro stato. Di certo la sua scrittura, quella di Joni Mitchell, ha un peso, ti consente di sederti e contemplare e riflettere.
Maddalena Pennacchia: sì, una domanda non semplice, la mia, ma tu hai risposto pienamente! Però torniamo un attimo alla questione dell’aria e dell’aria che è nella tua voce. E al tuo respiro. Io sono affascinata dall’uso del respiro che fai. Il tuo respiro si sente e io adoro ascoltarlo. Come sei arrivata ad usare il tuo respiro come una specie di cifra stilistica.
Gretchen Parlato: Beh, sì. Penso che molto è dovuto al fatto che sono stata esposta all’ascolto di voci e cantanti da tutto il mondo. Ho ascoltato come il respiro è comunemente usato, come dici tu, con una sorta di sensibilità ritmica. È qualcosa di udibile, che è parte della consistenza e della tessitura di un pezzo. Questo è successo nel periodo in cui ero all’Università a UCLA (University of California Los Angeles), nel Department of Ethnomusicology(Dipartimento di Etnomusicologia) dove in moltissime lezioni sei esposto alla musica che proviene da tutto il mondo. Perché, in caso contrario, se studi solo musica di solito ti avvicini alla musica occidentale o degli Stati Uniti e va bene. Ma c’è tanto tanto altro. Quindi credo che sia stato lì, negli anni Novanta, quando studiavo etnomusicologia, che ho imparato ad ascoltare altri modi di usare la voce. Per esempio, ho ascoltato i nativi americani; ho ascoltato gli Inuit e i loro canti tribali; mi sembra che ci fosse un video in cui si vedevano queste donne che cantavano usando ciascuna la bocca della persona che aveva di fronte come cassa di risonanza. Quindi bisogna essere effettivamente molto vicini a qualcuno per poter fare una cosa del genere! Era una sorta di hoquetus, con uno schema a intreccio e c’era il respiro, il suono, l’intonazione e come le parti si intrecciano. Questo è solo un esempio di quello che studiavamo e dell’analisi che ne facevamo e di come sono stata esposta a questo tipo di riflessione e ascolto. Da lì è arrivata la consapevolezza di cosa fosse il respiro. E d’altra parte: questo è quello che facciamo. Siamo esseri umani. Abbiamo bisogno di respirare. Perciò non c’è bisogno che il respiro sia silenzioso, inudibile. E ha un ritmo, ha un suono. Molto è emerso anche cantando con Lionel Loueke, un bellissimo chitarrista e cantante, che ho conosciuto al Thelonious Monk Institute. Abbiamo suonato tantissimo insieme. E il suo uso della voce è molto strumentale, molto ritmico. L’ascolto di un cantante come lui mi ha fatto capire. Dalla nostra bocca può uscire qualunque suono, la tua voce può essere usata nel tessuto della tua musica.
Maddalena Pennacchia: Sì, verissimo! E infatti tu usi il respiro e la voce come un autentico strumento. Mi piace che quando suoni (e sottolineo, suoni, non soltanto canti) sei uno strumento fra gli strumenti. Mi interessa questo aspetto perché la relazione fra la voce e gli strumenti può essere una relazione di potere. Gli scienziati ci dicono che il nostro orecchio è sempre più attratto dal suono della voce che dal suono di qualunque altro strumento. Siamo naturalmente sintonizzati sulla voce umana. Quindi mi sono chiesta: cosa accade quando una voce umana canta in mezzo agli strumenti? E la mia risposta è che può instaurarsi una relazione di potere. In te amo il fatto che lasci tantissimo spazio agli altri strumenti. Di fatto ‘collabori’ con gli altri strumenti. E per me è un atto di generosità da parte tua. Tu lavori sempre con splendidi musicisti, certo, ma non è solo la qualità dei musicisti di cui ti circondi che ti fa fare questa scelta. È che sei, per così dire, decentrata rispetto alla tua stessa performance vocale. La voce può essere invadente, io credo. Quando penso anche alle grandissime cantanti jazz ‘tradizionali’ questo può accadere. Mi diresti qualcosa in più su questo? Inoltre tu vieni da una famiglia di musicisti, hai sposato un musicista, ma hai deciso di concentrarti solo sulla voce e sul corpo (con il body percussions). Ne sono affascinata. Comunica un tale senso di indipendenza: voglio dire, potresti pure trovarti sola nel deserto e fare musica! Basti a te stessa. È una tale fonte di ispirazione. Dimmi qualcosa su questa relazione della voce con gli strumenti e perché hai deciso di concentrarti sulla voce
Gretchen Parlato: questa è una questione interessante! Credo che Tierney Sutton, che è stata una delle mie insegnanti, una grande cantante, mi abbia per la prima volta fatto riflettere sul fatto che siamo molto più concentrati sulla voce umana. Quindi quando si trattava di imparare una canzone o delle parti, lei mi diceva di ascoltare qualcuno che le cantasse perché avrei colto molto più velocemente la melodia. Oppure mi diceva: se stai cercando di imparare una parte o di trovare il modo per cantarla, registrati mentre la canti e poi riascolta la tua voce perché si crea una connessione che è in grado di farti andare più in profondità nella tua ricerca della parte. E d’altra parte tutti abbiamo una voce, siamo esseri umani, parliamo anche se non sappiamo cantare. Ci relazioniamo a quel suono perché di fatto possiamo crearlo. Quindi capisco che ci sia un potere in questo. Ma per quanto mi riguarda, ho sempre amato essere parte di un insieme. Ripenso a quando ero più giovane e facevo parte di un coro o mi capitava di partecipare ad una produzione musicale per il teatro. Mi dava talmente tanta gioia e ispirazione essere parte di una squadra, sai? Ed ero piuttosto timida, un po’ introversa. Forse c’è ancora una parte di me che non ama stare sotto i riflettori. Mi piace stare allo stesso livello del gruppo. E quindi, sì, è qualcosa di naturale per me ma che, come dici, consente anche agli altri strumenti di emergere nella tessitura e nella struttura che si sta creando o lasciare che alcune parti rimangano vuote, non riempire necessariamente tutto. Si può lasciare spazio. Penso che anche quello sia molto importante, sai. Forse, sì, oggi si potrebbe dire che è stata una scelta quella di concentrarmi sul solo canto. Ma è anche legata al fatto che mi sentivo frustrata a cercare di imparare a suonare il pianoforte o la chitarra o altri strumenti, perché mi sembravano troppo difficili per me. Quindi la cosa che ho fatto con grande naturalezza è stato cantare e suonare il ritmo, quindi le percussioni ad un certo livello. Quindi per certi versi si tratta di uno sforzo e tendenzialmente provo una certa direzione perché mi sembra che sia più praticabile. Mi sono detta: che cosa ho? Ho la mia voce, la mia abilità di suonare il ritmo con le mani. Già con i piedi… ho provato a sedermi ad una batteria ma è più difficile per me. Le mani invece sono più facili. E questo è stato molto stimolante e anche una sfida, cantare ed essere coordinata rispetto alle mie mani e al ritmo. Sì, sai, ancora penso che dovrei prendere lezioni di pianoforte. Dovrei costringermi a imparare uno strumento a corde che renderebbe migliore quello che faccio. Ma sento come se ci fosse un blocco di qualche tipo. Non mi sento immediatamente a mio agio. Dovrei superare quello scoglio. Mi fa piacere condividere perché forse altre persone possono mettere ciò che dico in relazione con la loro esperienza
Maddalena Pennacchia: Capisco, ma forse non c’è neanche bisogno. La tua voce è uno strumento che suoni con tale maestria. Il tuo approccio alla voce è quello di una musicista. Non è solo vocale e non intendo questa osservazione come una diminuzione. È solo che hai la mente di un musicista e dunque usi la voce come uno strumento. A volte, quando ti ascolto, penso: com’è precisa, va esattamente dove vuole andare. Sono sicura che ispiri tante persone nel mondo con il tuo uso strumentale della voce. E per quanto riguarda la tua timidezza. Non credo sia solo quello. A me sembri una persona meditativa e questo emerge nella performance. Purtroppo non sono stata abbastanza fortunata da ascoltarti dal vivo, ma ho guardato delle performance registrate dal vivo su YouTube e il tuo modo di performare è davvero poco comune in una vocalist o una cantante, perché il corpo è lo strumento di un cantante e per una donna presentare questo strumento, che è il corpo, ad un pubblico può avere molti significati. Si può usare il proprio corpo in un modo che toglie attenzione alla performance vocale. E invece tu scompari in te stessa. È come se ti tufassi in te stessa, quando chiudi gli occhi e canti. Appari immersa nella meditazione quando canti. E quando ti guardo, come parte di un pubblico, e nel mio caso di un pubblico a distanza, mi arriva questa sensazione potente di ‘sparizione’ del corpo nella voce. Ho anche guardato la tua performance live in streaming dal salotto di casa tua per “These Digital Times – The Melbourne International Jazz Festival”, il festival australiano del Jazz che a causa della pandemia si è tenuto online. E la sensazione, per me, come tuo pubblico, è sempre quella: di un corpo che diventa musica. Forse sono anche gli abiti che indossi, non so. O il modo in cui ascolti l’iniseme. Si percepisce il piacere che la musica che ti circonda ti procura. Appari come avvolta in questa sensazione di piacere al punto che sembra quasi che la tua sia una voce interiore che emerge dalle profondità del tuo essere.
Gretchen Parlato: Oh, hai ragione. Non saprei neanche cosa aggiungere a quello che hai detto. E mi piace tanto. Mi piace quello che hai messo in evidenza e sono d’accordo. Sono contenta che mi dici questo adesso che ho 45 anni. Anzi, mi sarebbe piaciuto che qualcuno me lo dicesse quando ne avevo 25 o quando ero un’adolescente. Perché molti si aspettano il contrario e vogliono quel contrario e non sono abituati a qualcosa di troppo introspettivo. E sì è una forma di meditazione ed è un invito agli altri a sentirsi meditativi. E non tutti vogliono o si sentono pronti a fronteggiarlo. Ma hai assolutamente ragione. Mi sento proprio così. E a questo proposito penso a mio figlio che ha quasi sette anni adesso. Ne abbiamo parlato durante una delle nostre lezioni. Per lui è qualcosa di difficile da accettare quando canto così e non voleva che cantassi. Non gli piace del tutto anche se adesso comincia ad apprezzarlo di più. Penso che forse fosse troppo per lui, perché è proprio così: io scompaio. E dove sono andata? Sono tutta nel momento. Non sono più una madre in quel momento. Non sto giocando con lui o non mi sto occupando di lui in quel momento. Quindi un bimbo ancora piccolo può rimanere confuso e stiamo parlando di mio figlio. Quindi forse può succedere anche ad altri, per i quali può essere ‘troppo’. Che sta succedendo in questa performer? Provo moltissimo piacere, come dici tu, nell’ascoltare ciò che accade e nel perdermici. Alla fine va bene così. Ci sono persone che non vogliono una cosa del genere e non è indispensabile che la abbiano. Ma il solo fatto che esistano persone che possono apprezzarla e stare lì con me, mi fa sentire felice di continuare.
Maddalena Pennacchia: Certo! È un modo di performare che è molto intimista, persino intimo. Sei immobile sul palcoscenico e apri una finestra su te stessa. È un atto di generosità nei confronti del pubblico. Così come è un atto di generosità quello nei confronti dei musicisti. Stai aprendo il tuo mondo interiore. Quindi è una esperienza molto bella di cui come tuo pubblico ti ringraziamo.
Gretchen Parlato: E io sono felice che viviamo in un periodo in cui questo possa ancora essere avvertito anche attraverso lo schermo di un computer se non in presenza. La nostra tecnologia è abbastanza avanzata da farci percepire in qualche modo il senso del live. Perché per un po’ questo è quanto ci è dato. Finché non torneremo dal vivo.
Maddalena Pennacchia: lo stiamo tutti aspettando! Ma ritorniamo ancora un attimo al tuo immaginario. Abbiamo detto acqua e poi aria e poi cosa? terra? Cosa ci aspetta nella tua nuova impresa artistica? Il tuo nuovo disco, Flor, esce il 5 marzo. Io ho ascoltato Wonderful, che era in anteprima su Spotify1. Ci sono queste bellissime voci di bambini. E questo mi ha fatto tornare in mente il tuo Butterfly dall’album In a Dream (2009). Ne abbiamo parlato una volta, perché anche lì c’è una voce infantile all’inizio della registrazione e ti ho chiesto di chi dosse quella voce. E tu mi hai dato una risposta che mi piacerebbe tu condividessi anche con gli altri che ci ascoltano, se ti va di farlo. Come relazioni queste voci di bambini in Wonderful con quella voce infantile di In a Dream?
Gretchen Parlato: Si certo! Fantastico che tu connetta le due cose. Io stessa non le avevo ancora messe in connessione. Ma è giusto! Beh, quando ho registrato Butterfly, un certo numero di anni fa, ero io a cantare nell’introduzione a due anni. Quando ero piccola mia mamma mi ha registrato e ha conservato le cassette che contenevano la mia voce e quella di mia sorella: noi che giocavamo o cantavamo o dicevamo cose da bambini. In questa c’ero io da sola che facevo il bagnetto. Sono cassette che abbiamo sempre molto amato nella mia famiglia; le ascoltavamo insieme e ridevamo e ci facevano molto divertire. Ma quando stavo registrando Butterfly mi sono ricordata di questa cassetta e ho pensato, vediamo se posso usarla nell’introduzione; ho pensato che potevo usare un pezzettino di me che canto e gioco a tenere il ritmo sulla superficie dell’acqua del bagnetto. L’ho fatta ascoltare a Lionel [Loueke] e lui ha accompagnato quei suoni con la chitarra e ha creato una introduzione: quindi lì c’è lui che mi accompagna quando avevo due anni! C’è una parte in cui la me di due anni tiene il tempo: da da da da da e quello è diventato il count off del brano. Forse chi ascolta capisce che sono io. Però ci sono state persone che mi hanno chiesto se la voce fosse quella di un figlio o di una figlia. E quando ero giovane rispondevo subito “no, no… non ho figli” ritenendo che fosse assurdo anche solo che qualcuno lo pensasse. Ma ora in Flor si, sono i nostri figli e le nostre figlie a cantare. C’è mio figlio. E le figlie del chitarrista e del violoncellista del gruppo. Ci sono altri amici, persone di famiglia e i loro figli. Bambini e ragazzi dai quattro anni ai quindici anni che cantano nel brano. È dolce ascoltare le loro voci.
Maddalena Pennacchia: Ed è il messaggio anche che mi piace: ciascuna voce dice “you know I’m wonderful” un inno all’auto-stima forse per incoraggiare le persone a credere in se stesse. Chi le ha scritte?
Gretchen Parlato: Le ho scritte io, pensandole da madre e pensando a mio figlio, ma anche pensandole per tutti. Riflettevo su tutti i bambini e su noi come adulti. Mi sono ricordata che quando sei giovane hai un senso di fiducia in te stesso, ti senti invincibile, come se potessi fare tutto, come se tutto fosse in tuo potere e poi qualcosa accade quando diventiamo grandi e perdiamo quella sensibilità. Quindi è un modo per ricordare quei momenti. Pensa a coloro che prendono direzioni oscure nella vita e forse è perché hanno perso il senso del loro valore come persone e si fanno del male o non hanno cura di sé. Spero che possa essere un messaggio che aiuti chi lo ascolta a trovare ciò che ti fa sentire bene, ciò che ti fa sentire forte e splendente di bellezza in modo da poter fare le cose che desideri nella tua vita e aver cura di te e degli altri. Mi è sembrato un messaggio importante, specie per il 2020.
Maddalena Pennacchia: Sì, è un messaggio molto positivo. Come pure l’immagine del fiore che ha radici nella terra intesa non solo come earth, ma come world, mondo. Da quello che leggo sul tuo sito il disco include musica da tutto il mondo. È così? Le radici di questo fiore si espandono, sono molto ramificate dunque.
Gretchen Parlato: Sì, questo immaginario può andare in molte, molte direzioni. Giusto. L’immagine del fiore per me racchiudeva le riflessioni che ho fatto sulla maternità e sul fatto che per un periodo ho messo da parte la mia musica per far spazio al mio essere madre. Avevo preso un’altra direzione. Quindi alla fine ho pensato che potevo interpretarla come una ‘stagione’ per così dire. È come un fiore che appare in primavera. Non lo vedi in inverno. Sembra dormiente. Sembra come morto, sembra che nulla stia succedendo. Ma in realtà è solo una forma diversa e riapparirà e sboccerà e lo si vedrà di nuovo. Quindi ho pensato che fosse un’immagine che mi corrispondeva. Che corrispondeva alle mie stagioni. Ma, ritornando ai tre livelli, si potrebbe pensare al fiore anche in quel senso. Dove il livello emotivo sono le radici; quello tecnico è la terra, l’acqua e l’aria, l’ambiente insomma, con tutto ciò che serve perché qualcosa possa ‘funzionare’; mentre il livello spirituale è il fiore che cresce e sboccia. Sai, non ci avevo mai pensato prima. Quindi, grazie per avermi aiutata. Credo che quando finalmente farò diventare questa mia idea un teaching book potrei usare questa immagine. Avrebbe molto molto senso.
Maddalena Pennacchia: Certo! Io credo che tu dovresti mettere insieme tutto ciò che hai scritto. Lo penso davvero.
Gretchen Parlato: Sì, assolutamente. Quest’anno ho insegnato tantissimo e ripetuto certi concetti tante volte che ho capito che forse dovrei proprio mettere per iscritto questi pensieri e presentarli alle persone come uno strumento di lavoro: magari un workbook, o un diario, o qualcosa che possa aiutare le persone a tirar fuori le loro idee. Ma l’immaginario del fiore è proprio rappresentativo del mio pensiero.
Maddalena Pennacchia: Beh mi piace molto pensare alla ciclicità del fiore: al fatto che sei rimasta ‘sopita’ per così dire per un breve periodo quando hai dovuto concentrarti sul tuo bambino finché era ancora molto piccolo; e sono felice che quel fiore stia sbocciando nuovamente. Lo sai, come madre ho molto ben presente cosa intendi. E non solo come madre, ma anche come persona che è tornata a cantare dopo tanti, tanti anni.
Gretchen Parlato: Certamente. Questo è il punto. Può capitare qualcosa che costringe una persona a ritirarsi per un poco in se stessa. Può essere la maternità, o forse una malattia, può essere un cambiamento di percorso lavorativo o un incidente. Non so. Possono esserci tanti motivi.
Maddalena Pennacchia: per me questo fiore di cui parli è anche un simbolo della voce e del potere curativo della voce, della capacità che la voce ha di rinnovarci.
Gretchen Parlato: Sì, è così! E mi stai aiutando a realizzare che tutte queste diverse immagini alla fine si ricongiungono.
Maddalena Pennacchia: Grazie Gretchen per la tua generosità nel rispondere a tutte queste domande per un’intera ora
Gretchen Parlato: È stato un piacere, mi è sembrato tutto molto veloce, non mi ero accorta del tempo che è passato. Grazie a te!
’L’intervista è stata registrata il 17 dicembre 2020