Cosa si vedeva dalla finestra di Irio De Paula? Me lo sono chiesta più volte negli ultimi tempi quando ho ripensato a lui. La sua casa romana era in una delle traverse di viale Marconi, poco prima del ponte che scavalca un’ampia ansa del Tevere. Un ponte che ormai attraverso quasi quotidianamente per raggiungere il luogo in cui lavoro. Ma all’epoca per me quella era una zona sconosciuta della città.
Ho cercato spesso di ricordare cosa si vedesse da quella finestra, perché le finestre mi attirano sempre. Sono una via di fuga, dirigono lo sguardo verso spazi più liberi di quelli delle mura che ci circondano, lasciano che l’esterno ci visiti, con la sua luce e le sue ombre. Per quanto mi sforzi, tuttavia, proprio non ricordo. Forse perché non ho mai guardato fuori da quella finestra. Perché, entrando nella casa di Irio la vista, che di solito è il senso più acuto in me, perdeva importanza.
Era nato nel 1939, Irio, a Rio de Janeiro, un luogo così lontano da Napoli, da cui io venivo. Non me la immaginavo quella città. Quando ci conoscemmo, a Roma, nel 1990 io avevo 24 anni e lui 51. Eravamo ad una cena dove lui era venuto con la sua chitarra. All’epoca cantavo nei piano-bar romani e guadagnavo molto bene, tanto da potermi permettere di vivere di quel ‘lavoro secondario’ (traducevo anche, con la laurea in lingue che avevo appena preso, ma era un’attività molto meno remunerativa). Lo strumento che accompagnava la mia voce era sempre il pianoforte, il più delle volte un piano elettrico, di solito un Fender.
Mi avvicinai a Irio che se ne stava silenzioso con la sua chitarra in braccio, avrei scoperto che non stava mai senza e anche che non parlava quasi mai. E lui cominciò a suonarla. Che dire? Quello strumento aveva una voce che raccontava storie bellissime. Ad un certo punto mi chiese cosa sapevo cantare del repertorio brasiliano. E io sapevo solo, in inglese, The Girl from Ipanema (un classico trito e ritrito del piano-bar: in realtà odiavo quel pezzo, lo trovavo persino un po’ volgare). E lui mi disse: “cantala!”.
Adesso che ci penso credo che il mio amore per la musica brasiliana sia nato in quel momento: perché quel pezzo così ‘scontato’ divenne improvvisamente altro. E non ero io che cantavo, io ero solo la voce che Irio voleva che fossi, senza che lui l’avesse detto: niente gorgheggi, niente forzature, solo un filo leggero unito alla chitarra. Fu uno di quei rari momenti in cui si incontra un artista così intenso musicalmente che non devi far altro che lasciarti guidare, seguire con fiducia.
Quando riaprii gli occhi – quanto era passato? il tempo di una canzone? di una vita? – ce li avevo ancora pieni di una visione di bellezza; la visione di una fanciulla che, ancheggiando, appare per un attimo e poi scompare lasciando in chi la guarda il desiderio di afferrare l’ultimo svolazzo della sua gonna. Quando riaprii gli occhi, Irio mi guardava con quei suoi occhi un po’ enigmatici e sonnolenti. Sorrideva, però. Mi disse se volevo andare a trovarlo a casa sua perché voleva che cantassi ancora un po’ di quella musica.
Ci andai, a via Silvestro Gherardi. E non una volta sola. La televisione era sempre sintonizzata su una partita di calcio. Il volume era sempre azzerato. Arrivavo il pomeriggio dopo pranzo, andavo via prima di cena. Irio si era appena svegliato. A volte beveva un caffè. Altrimenti no. Lui mi chiamava ‘menina’ e ha avuto sempre per me la delicatezza e il rispetto che si porta ad un bambino. A casa sua entravano e uscivano persone: suo figlio, cantanti, musicisti, gente varia. Ma lui continuava a suonare e io a cantare. Dovevamo sembrare una ben strana coppia.
Mi portò con sé in alcuni concerti. La sua manager all’epoca decise che bisognava togliere una ‘d’ al mio nome, perché Madalena faceva tanto ‘brasiliano’! Spesso, a casa, lui registrava quello che suonavamo. E una delle ultime volte che l’ho visto mi diede una di queste registrazioni. Ma io avevo già preso delle decisioni lavorative. Avevo già scelto la vita verso cui i miei studi mi indirizzavano.
Non l’ho più visto dopo il 1993. Non ho più voluto io. Forse volevo conservare l’illusione che quel filo musicale che ci aveva uniti non si fosse spezzato. Solo molto, molto tempo dopo ho saputo che se n’era andato per sempre. Era il febbraio del 2019, durante la prima ‘lezione di prova’ in una scuola di musica romana per tornare a cantare: me lo disse il chitarrista che doveva accompagnare il mio canto. Dopo trent’anni il cerchio si era chiuso.
E dopo più di trent’anni, qualche mese fa, ho finalmente scaricato il contenuto di quella cassetta magnetica e ho improvvisamente ricordato cosa si vedeva dalla finestra della casa di Irio.
Dalla sua finestra si vedeva il Corcovado.
Desidero ringraziare di cuore Robertinho De Paula per avermi permesso di pubblicare la registrazione di Corcovado cliccabile qui sotto, in cui canto con suo padre, Irio De Paula, in un concerto tenutosi a Rovereto nell’estate del 1993.